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L’acqua potabile prima del rubinetto: una storia curiosa tutta da scoprire

  • 7 Ottobre 2025
  • Irene Foresti
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Durante il famoso banchetto tenuto da Trimalcione, narrato da Petronio (I sec.), d’acqua nessuno ne offriva. Già, perché l’acqua divide gli uomini, [mentre] il vino li unisce, per dirla con Libero Bovio.

In quanto elemento naturale irriproducibile artificialmente, dell’acqua c’è poco da parlare in termini di origini, tant’è che in molte culture, per la sua rilevanza nello sviluppo e mantenimento di qualsiasi forma di vita, è entrata a far parte dei miti delle origini.

Presso alcune tribù sudamericane, per esempio, era viva la convinzione che gli antenati avessero tentato di donare il miele (per loro importantissimo) alle divinità per ottenerne in cambio proprio dell’acqua.

L’aspetto interessante, a differenza di altri elementi della nostra alimentazione, non è tanto cercarne traccia nelle fonti orali o nei ricettari, bensì capire come l’uomo si è ingegnato per trovarla (studiando le sorgenti da cui si abbeveravano gli animali), renderla disponibile e potabilizzarla (quando necessario).

La sua presenza è sempre stato il presupposto imprescindibile per fondare e mantenere dei nuclei umani e dare vita a paesi e città. Una su tutte: Roma.

Raramente pensiamo alla nostra capitale come città delle acque, ma sin dall’antichità era nota proprio per questo e per le qualità di ognuna di esse. Nel periodo ascrivibile al governo di Traiano (II sec.) si conoscevano le acque Marcia, Appia, Agnene, Tepula, Giulia, Virgo, Claudia e Alseatina, cui in seguito si aggiunsero l’acqua delle api (la cui sorgente venne scovata, nel 1637, nel giardino di una delle residenze della famiglia Barberini, caratterizzata da api nel proprio stemma) e l’acqua lancisiana (scoperta dal medico personale di Leone XIII nel XIX sec.).

Oggi, accanto alla figura del sommelier sta emergendo quella dell’assaggiatore di acque, che nella Roma antica avrebbe potuto sbizzarrirsi, soprattutto con quelle acidule e la più famosa fra di loro: l’acqua acetosa.

Già nota nel XVII sec. ed apprezzata a livello terapeutico (Papa Paolo V la utilizzava a tale scopo), sgorgava lungo il Tevere nella zona dell’attuale e noto Ponte Milvio (quello dei lucchetti). La sua fontana c’è ancora, ma non è più possibile attingevi poiché l’antica acqua acetosa non è più potabile dalla metà del secolo scorso.

Era un’acqua naturalmente frizzante che, in tempi ancora lontani dall’invenzione dell’idrolitina e dal periodo in cui i tedeschi cominciarono a vendere l’acqua di Selters (XVIII sec.), era molto gradita proprio per questa sua caratteristica.

Fino a tutto l’800, nel poderoso Tevere scorreva ancora acqua idonea al consumo umano, dunque non deve stupire la presenza di numerose sorgenti nei dintorni di Roma.

Tuttavia, poiché queste ultime non erano situate direttamente in città, con la crescita demografica emerse la necessità di portare fra le vie e le piazze una maggiore quantità di acqua, affinché la popolazione potesse attingervi; un servizio pubblico a tutti gli effetti.

La soluzione fu quella di progettare e costruire acquedotti (aerei ma soprattutto sotterranei). In entrambi i casi ed in assenza di metodi meccanici e dell’elettricità di cui disponiamo oggi, il loro principio di funzionamento era quello di incanalare l’acqua dalla sua sorgente in condutture poste in progressiva e leggera pendenza, fino a giungere alle tante fontane cittadine.

Di queste così dette mostre d’acqua, le più famose sono la fontana di Trevi, la Barcaccia di Piazza di Spagna e la fontana di Piazza Navona, ancora alimentate dall’acquedotto dell’acqua virgo, costruito da Agrippa e funzionante sin dal lontano 19 d.C.

La loro monumentalità e le loro decorazioni avevano proprio lo scopo di celebrare l’acqua che giungeva in città da luoghi remoti, un evento che a quei tempi meritava certo di essere notato e sottolineato.

Da qui l’acqua stessa poteva essere attinta e portata a casa con gli strumenti più disparati, con modalità simili un po’ in tutta Italia. In Calabria, per esempio, si usavano recipienti detti quartara (di grandi dimensioni) o bumbula o gozza (più piccoli), da portare rigorosamente sulla testa, per un migliore equilibrio e per prevenire sversamenti accidentali.

La maggior parte degli acquedotti attivi a Roma anticamente venne realizzata tra il 312 a.C. ed il 226 d.C. (per un totale di oltre 500km di percorso) e subì alterne vicende a causa delle scorrerie barbariche, le quali ne causarono parzialmente la rovina o il disuso e l’abbandono. A partire dal XV-XVI sec. vennero ripristinati o costruiti ex novo al fine di sopperire, ancora una volta, all’aumento demografico.

La così detta “acqua corrente” disponibile in casa era cosa rara e decisamente costosa, oltre che da autorizzarsi nientemeno che dall’imperatore stesso o da un suo magistrato.

Nelle domus romane era invalso l’uso di raccogliere l’acqua piovana nell’impluvium, situato in una stanza senza tetto né soffitto (l’atrium). In tal caso, a scopo precauzionale veniva comunque bollita per poi conservarla, dopo raffreddamento, in recipienti rivestiti di vimini (come gli odierni fiaschi, con funzione pari ad una impermeabilizzazione) o, in alcuni casi, allungata con vino (per un ulteriore intervento potabilizzante).

La realtà di Roma, o di altre città ad essa paragonabili, non era certo cosa comune altrove: dove non c’erano acquedotti o corsi d’acqua potabili, l’acqua doveva essere acquistata, non certo alle case dell’acqua come oggi, bensì dai numerosi venditori ambulanti.

A Napoli avremmo trovato il banditore della vulcanica e ferrosa acqua zurfegna o suffregna (attinta alla fonte di S. Lucia e servita tale e quale o diluita con spremute di agrumi), mentre a Milano l’acquaroeu, noto anche come quell de la consolina (poiché spesso addizionava l’acqua stessa di miele e sciroppi vari per trasformarla in una sorta di bevanda “consolatoria”).

Per tornare a Roma, è importante sottolineare che anche qui circolavano venditori ambulanti di acqua. Si rivolgevano a coloro che, per vari motivi, non potevano recarsi alle fontane ed avevano una propria specializzazione: l’acquacetosaro vendeva acqua acetosa (soprattutto di mattina, poiché consumata a colazione), l’acquarenaro l’acqua del Tevere e l’acquafrescaio l’acqua fresca (conservata in ghiaccio e sale).

I clienti dovevano solo dotarsi di bicchieri o fiaschi o, in alternativa, potevano acquistare l’acqua in cupelli, piccoli recipienti che poi avrebbero potuto riutilizzare a casa.

L’attività di questi ambulanti ha avuto un certo rilievo in passato, al punto da portare alla fondazione della Confraternita dei Bacillari, rappresentata da un asino portatore di barili, immagine presente anche sulla pianeta del sacerdote incaricato delle celebrazioni corporative.

L’acqua sgorgante dal rubinetto (il vino del comune di alcuni proverbi) è giunta in tempi molto recenti, dunque bisogna pensare che questi metodi di procacciamento e trattamento del bene idrico sono rimasti attivi anche in epoche successive a quelle che ho narrato.

È un cibo (un prodotto) a tutti gli effetti ed anch’essa ha una storia di tutto rispetto, spesso sottaciuta o sconosciuta o data per scontata, tutta da raccontare.

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