Si tratta di un prodotto molto in uso nella cucina regionale italiana. Eppure esso arriva da lontano. Questo è uno degli esempi di come la cucina, così come tutti gli aspetti culturali che caratterizzano gli usi delle persone di un determinato luogo, siano da sempre oggetto di intreccio e contaminazione con usanze o prodotti che diventano così parte integrante della propria cultura. A differenza di quanto taluni vogliano promuovere in questi ultimi tempi, la cucina italiana e la tradizione non sono affatto elementi immobili e immutabili, tanto che codificarla al punto di ingessarla vorrebbe dire snaturare completamente il suo significato. Vorrebbe dire renderla oggetto da museo, eliminandone ogni aspetto che riporta alla natura umana. In un periodo storico dove sarebbe meglio restare un poco di più esseri umani, forse non è la cosa più sensata da fare.
Ebbene, i merluzzi che vengono pescati nei freddi mari del nord, sono lavorati localmente affinchè si conservino al meglio con due metodi che, sostanzialmente, portano a risultati identici in termini di conservabilità, ma a risultati molto differenti in termini sensoriali: aromi, sapori e consistenza variano, e di molto. Il merluzzo viene sottoposto all’essiccazione oppure viene messo sotto sale. L’obbiettivo è il medesimo in entrambi i prodotti: togliere acqua, responsabile principale del processo di putrefazione.
Ma perchè dal Nord Europa diventarono così celebri anche in Italia?
Il motivo per cui questi prodotti arrivarono in Italia è legato alla storia di un nobile commerciante, Pietro Querini, che nel 1431 venne colto da una tempesta a nord della Norvegia. Lui e il suo equipaggio rimasero oltre 100 giorni in questo posto prima di tornare a Venezia, la loro città. Qui apprese la tecnica di lavorazione del merluzzo e, una volta tornato il racconto del suo viaggio venne depositato presso le autorità della Serenissima. Ma ci volle oltre un secolo perchè questo prodotto venisse importato: con la chiusura del Concilio di Trento (nel 1563) si stabilì il calendario delle giornate di astinenza e di magro: i venerdì, le Vigilie, la Quaresima, il tutto per circa 150 giorni l’anno. Questo provocò la necessità di trovare qualcosa di sostitutivo alla carne. Il basso costo del prodotto, la sua facilità di trasporto e le sue caratteristiche nutrizionali resero lo stoccafisso (il merluzzo essiccato) il prodotto perfetto.
La sua nomenclatura è tema assai confuso. In realtà i termini baccalà (di derivazione spagnola) e stoccafisso (di introduzione più recente e di derivazione tedesca) vengono utilizzati in un modo molto simile, in relazione al territorio e alla ricetta. Nelle zone di Bergamo e Brescia, ma anche in alcune del Veneto, viene anche chiamato Bertagnì o Bertagnin, in onore forse di un commerciante genovese che si chiamava proprio così. Definire quali termini si riferiscano ad uno o all’altro è cosa difficile, in ogni caso per le ricette in uso oggi vengono utilizzati entrambi i prodotti avendo cura di dissalare o ammollare, prima è necessario anche “batterlo”.
Una nota sulla scelta del merluzzo: cercate si scegliere quello che riporta sulla confezone il marchio MSC, cioè riconducibile a una pesca sostenibile e rispettosa delle popolazioni di merluzzo. PER APPROFONDIMENTO QUI
Viene quindi preparato mantecato, riducendolo cioè a una sorta di crema, oppure in diversi modi che spaziano dalla sua cottura in umido, ma anche con il latte. Quello salato viene anche fritto in pastella (qui non è possibile utilizzare lo stoccafisso perchè rimarrebbe troppo duro al morso) oppure servito in insalata, condito con olio, aglio e prezzemolo.
Sono tante le INTERPRETAZIONI a cui si presta e lo troviamo in moltissimi locali: da quelli che si dedicano alla cucina tradizionale, fino ai fine dining.

Questa è la versione che abbiamo potuto assaggiare all’Osteria Tre Gobbi di Bergamo: il classico baccalà alla vicentina servito su patata schiacciata. Lo stoccafisso viene ammollato per alcuni giorni e poi cotto aa lungo secondo la ricetta tradizionale codificata dalla Confraternita del bacalà alla vicentina, che prevede di aggiungere una quantità non indifferente di cipolle in relazione alla quantità di pesce (circa un terzo). Vengono fatte soffriggere con delle sarde sotto sale e, successivamente, si aggiungono i pezzi di stoccafisso infarinato (precedentemente battuto e ammollato). Si lasciano in cottura per almeno 4 ore con latte e oliosenza mai toccarlo. Ecco che il pesce perde la sua struttura e si sfalda leggermente, mantenedosi presente sotto ai denti. Alla base, l’oste Marco Carminati aggiunge la patata lessata e poi schiacciata, dove i suoi pezzi ben si percepiscono e si legano alla perfezione con il pesce. Un piatto bello ricco, dai sentori intensi e di soddisfazione.



La confraternita ha un sito web con la ricetta e tutte le informazioni: LA TROVATE QUI
Parole di Lara Abrati
Foto di Matteo Zanardi