Giocare con le materie prime e lavorarle come si deve non deve avere per forza il fine ultimo della provocazione.
Spesso è più semplice di quel che si crede, ma nel mondo della cucina (e non solo oserei dire (contemporanea) troppo spesso si osa tanto per osare, evitando il conosciuto come fosse cosa banale, per principio.
Ma a volte il bello e il buono arriva proprio da unioni e matrimoni di lunga data, tipici anche delle cucine di casa, e a La Fortuna cucina dinamica abbiamo avuto prova di come una materia prima povera e una salsa tra le più conosciute e utilizzate, abbia suscitato stupore: non di concetto (o meglio, qui si deve leggere tra le righe, lo scoprirete dopo), bensì di pancia. Quello che stimola la ricerca della piacevolezza autentica, immediata, che in un certo senso si connette con i bisogni viscerali, istintuali (seppur d’istinto l’umano è privo).
E così arriva in tavola il vitello tonnato, che io non avrei mai scelto, mai ordinato: sul menu c’è scritto il vitello tonnato, secondo noi.
E invece…
La carne di vitello di prima scelta, in genere priva di tessuto connettivo e materia grassa come il magatello, è sostituita dalla lingua sempre di vitello, una parte dalle caratteristiche sicuramente diverse del taglio originale, in particolare per lo spessore ridotto delle sue fibre muscolari, la generosa presenza di grasso e di tessuto connettivo. La sua tenerezza e grassezza nel piatto ben si amalgama a livello strutturale con la salsa: questo è reso possibile dalla bravura dello chef nel condurre una perfetta cottura e lavorazione (parametro fondamentale per la piacevolezza del piatto, il rischio dell’eccessiva tenerezza o durezza è dietro l’angolo). Pulita e trattata a dovere, poi cotta intera a bassa temperatura, ulteriormente lavorata e, infine, tagliata a scaloppe (alte circa un centrimetro e mezzo). Prima del servizio viene brasata in padella, servita con una cucchiaiata di salsa tonnata preparata al momento e qualche cucchiaio di fondo vegetale a dare ulteriore forza e sapore. L’elogio a un piatto simbolo della cucina regionale italiana, in particolare a quella piemontese. L’omaggio al territorio, siamo a Campagnola Cremasca (CR), un luogo in cui se ci capiti per caso tiri dritto, attorniato da vaste campagne tipiche della bassa pianura Padana, dove l’agricoltura e l’allevamento hanno ricoperto e ricoprono un ruolo fondamentale per la sua economia. La valorizzazione del quinto quarto, di cui la lingua fa parte, in un periodo in cui la sostenibilità del consumo di carni è tema attualissimo diviene un atto doveroso e di grande cultura gastronomica. La tecnica in cucina e la conoscenza della materia prima, che va trattata come si deve.
Il fatto che sia stata proposta alla cieca in un menu degustazione è una cosa che ho apprezzato molto. La lingua, per tutti. Non la vedi, la mangi e la apprezzi.
L’interpretazione dello chef del locale, Simone Livraghi, sostenuto dai patron Luca Mariani (in sala) e Sonia Simonetta (in cucina). Questo piatto è ormai diventato un cavallo di battaglia in una proposta, la sua, di sostanza, opulenza e vigore, che regala una grande coerenza con il luogo in cui si inserisce.
Parole di Lara Abrati
Foto di Stefano Caffarri