La fine dell’autunno è il periodo in cui i primi freddi cominciano a farsi sentire, così come le prime nebbie, più fitte in pianura. Esse hanno sempre iconicamente contribuito alla creazione di quell’immaginario collettivo che ruota attorno alla memoria storica della tradizione lombarda e non solo dell’uccisione del maiale e della produzione del salame bergamasco. L’animale veniva allevato e nutrito lungo tutto l’anno per poi produrre carni fresche da utilizzare sia per il consumo immediato che per gli insaccati. Era una grande festa il giorno dell’uccisione, che iniziava prima dell’alba e che vedeva come figura centrale il norcino; esso aveva il compito di vagare di cascina in cascina per lavorare le carni di suino.
Ancora oggi, la figura del norcino è più viva che mai; si è evoluta, così come si sono evolute le tecniche di lavorazione sia a livello legislativo-sanitario che tecnologico. Ecco che anche le piccole aziende agricole si sono dotate di laboratori in cui questa arte viene portata avanti con la preparazione dei salumi: in particolare del salame, immancabile sulle tavole bergamasche.
Salami, salamelle, cotechini, testina e salsicce sono le protagoniste vere di questa stagione, durante il cui assaggio diviene ben percepibile anche la creatività del norcino: dalla scelta dei tagli, alla quantità di grasso, fino alle spezie e al vino utilizzato. E poi, l’attenzione nell’asciugatura e la stagionatura. Un’arte molto sentita e viva, capace di regalare veri tesori gastronomici locali tutti da gustare.
E’ proprio questo il contesto in cui i nostri nonni o genitori (per i trent’enni come me) evocano ricordi dedicati a scene di abbondanza, di festa, in quella economia rurale, la nostra, che si è sempre basata sulla mezzadria e una non equa distribuzione delle risorse, anche quelle di base come il cibo.
In questi giorni credo questi ricordi scaldino il cuore, ma anche ci possono aiutare a osservare la nostra strana quotidinità da un punto di vista diverso dal sentire comune.
Il salame nostrano bergamasco: guida all’assaggio
Il salame bergamasco buono, come è ovvio che sia, è quello che corrisponde ai propri gusti personali e alle proprie aspettative. Ma in realtà vi sono parametri da valutare per poter percepire in modo corretto la qualità di un salame artigianale.
Senza entrare nel merito dell’analisi sensoriale, ci sono alcune caratteristiche che permettono a chiunque di capire con facilità se ci si trova di fronte a un salame bergamasco preparato magistralmente oppure no. Partendo dall’aspetto esterno, il colore delle muffe è molto importante: la buccia deve essere pulita e di colore omogeneo (grigio-ocra o marrone chiaro). Per quanto riguarda l’aspetto interno, una volta tagliato, deve avere una pasta uniforme. Se si presentasse fresco al centro con la corona più esterna stagionata, vuol dire che l’asciugatura (prima fase della stagionatura) non è avvenuta in maniera corretta. Non ci sono rischi per la salute, ma è un prodotto da consumare velocemente e che presenterà all’assaggio una sensazione pungente. La quantità di grasso deve essere equilibrata: non eccessiva, ma nemmeno troppo bassa; il suo colore deve essere bianco-rosa candido. Se si presentasse di colore giallognolo vuol dire che il prodotto è vecchio e ormai irrancidito. All’assaggio deve essere sapido e aromatico al punto giusto e non presentare punte di acidità.
Dove acquistare un buon salame nostrano bergamasco?
Sono davvero molti i bravi artigiani del gusto che lavorano magistralmente le carni per offrire produzioni di alta qualità. Molti i macellai di paese, ma anche le aziende agricole con vendita diretta del salame bergamasco. Solo per citarne alcuni, ecco alcuni indirizzi in provincia. A Foresto Sparso, l’agriturismo “La piccola”, il luogo dove il giovane Luca Pauzzi produce il suo salame bergamasco. E poi, a Calcinate la “Cascina Franca”, il regno di Francesco Pasinetti (presidente dell’Associazione Norcini Bergamaschi). Nella bassa, a Covo, Agripig e il suo piccolo spaccio agricolo, mentre nelle valli da segnalare Massimo Balduzzi di Clusone, nel cui laboratorio vengono lavorate anche le carni di ovi-caprini. Infine, Davide Locatelli di Vedeseta e il suo salame di montagna. Ma se frequentate i mercati dedicati a prodotti agricoli locali, ne troverete di assolutamente unici e buoni!
Del maiale non si butta via niente: il ripieno di salame, la cassoeula e le ossa bollite
Ma proprio i giorni dell’uccisione del maiale, era in uso consumare le carni fresche e i pezzi inutilizzati cucinandoli in modo gustoso. Sono molti quelli che ricordano le famose “ossa bollite”, da servire solo con poco sale grosso. Si tratta di un piatto di recupero dove si mettono a bollire le ossa da cui è stata spolpata la carne per le lavorazioni. Sulle articolazioni rimangono pezzettini di carne davvero saporita che, dopo la lessatura, diventa davvero tenera e buonissima.
E poi, il ripieno del salame: quel goloso impasto di carne, grasso e aromi che può essere trasformato in un gustoso sugo per condire le famose foiade bergamasche. Basta brasarlo in padella, non aggiungendo grasso alcuno. Quando la carne risulterà ben asciutta, sfumiamo con poco vino bianco, aggiungiamo il pomodoro e lasciamo cuocere a fiamma bassa per un paio d’ore.
E infine lei, la casseoula, con i pestini del maiale, il cotechino, le spuntature delle costine, le cotiche e le verze rigorosamente che hanno preso il gelo (risulteranno così più dolci e tenere e la scienza lo conferma). Per semplificarne la preparazione, ne prepariamo una ricetta più semplice, ma gustosa a base di salamella e costine. Tagliamo la verza e facciamola cuocere con poco pomodoro e brodo (eventualmente da sostituire con acqua poco salata). A parte, facciamo brasare costine e salamelle, sfumiamole con un poco di vino bianco e uniamole alle verze (avendo cura di eliminare i grassi del maiale presenti sul fondo della pentola). Continuiamo la cottura lenta per almeno 1 ora e mezza o comunque fino a quando le verze risulteranno morbide e l’osso delle costine sporgerà almeno di mezzo centimetro rispetto alla carne.
Foto e testo: Lara Abrati